
a cura del Prof. Gian Benedetto Melis, Dott. Pierpaolo Pusceddu, Dott. Alfonso Dessì e Dott. Sergio Solarino

Professor Gian Benedetto Melis
Ordinario di ginecologia e ostetricia; direttore dipartimento chirurgico dell’università di Cagliari; direttore dipartimento assistenziale integrato azienda ospedaliera universitaria, materno-infantile. Carriera universitaria maturata tra Pisa e Cagliari, ha seguito numerosi stage di specializzazione e formazione in Usa, Canada, Inghilterra, Francia. Direttore della Clinica ostetrica da 25 anni, con millecinquecento / milleottocento parti annui, il Professor Melis ha seguito la nascita di oltre 40mila bambini.
Diabete pre-gravidico
Da seguire con estrema attenzione anche le future mamme che soffrono di diabete sia di tipo 1 che gestazionale.

Quando il diabete è pre-gravidico, la paziente deve essere monitorata costantemente: la patologia influenza infatti negativamente tutti i fattori della gravidanza, provocando a volte aborti precoci o tardivi, malformazioni nel bambino, la morte endouterina del feto (per il nascituro di mamma con diabete pre-gravidico la possibilità di morire dentro l’utero è di 4/5 volte superiore rispetto alla norma), complicazioni alla madre e al bimbo, macrosomia fetale (il peso del bambino su- pera i 4 chili). Il diabete gestazionale consiste invece in un’alterazione del metabolismo del glucosio e si verifica solo in gravidanza. Colpisce il 4/5 per cento delle donne gravide ma, se si seguono tutti gli accorgimenti necessari, consente di portare avanti la gravidanza in tutta serenità. “Il problema – dice Melis – non è tanto nella diagnosi di diabete gestazionale, ma nel suo mancato riscontro. Con il ricorso al test da carico orale del glucosio si tengono sotto controllo i valori della glicemia e, nel caso di diabete gestazionale, si valuta il ricorso a una dieta specifica”. Il test è semplice: dopo aver fatto bere alla donna una soluzione glucosata composta da acqua e circa 75-100 grammi di zucchero, si ripete l’analisi ogni mezz’ora per tre ore: in base ai risultati ottenuti, si ha una dia- gnosi di normalità, di tendenza a sviluppare diabete o di diabete conclamato. Le valutazioni glicemiche sono dunque plurime e, se la dieta non dovesse ottenere
gli esiti prefissati, la situazione può essere gestita con il ricorso a dosi di insulina. Insomma, i fattori di rischio sono campanelli d’allarme: avvertono che la strada verso la nascita potrebbe non essere così sicura, se lasciata scorrere senza i dovuti controlli. C’è di più: anche se la gravidanza è fisiologica non è infatti esente da complicanze, sempre possibili nel post-partum. Sofferenza fetale ed emorragia post-partum sono eventi, che rappresentano un’ipotesi non troppo lontana. “Non si possono affrontare tali situazioni lontano dalle strutture ospedaliere – conclude Melis – anche in caso di basso rischio ostetrico, quando la donna è seguita dalle sole ostetriche, deve es- sere sempre possibile un trasferimento veloce in ospedale. Nelle disposizioni ministeriali figurano ad esempio strutture delegate al parto non medicalizzato: reparti a ridosso dei presidi ospedalieri, seppure indipendenti. La realtà ci dice che si tratta di strutture ancora poco diffuse: in Italia c’è solo il Centro Nascita “Margherita” di Firenze, contigua alla clinica ostetrica, che risponde alle caratteristi- che individuate a livello ministeriale”. Il messaggio è chiaro: la gravidanza non è una condizione patologica, ma per viverla nel modo più sereno è importante non trascurare la sicurezza.

Dott. Pier Paolo Pusceddu
Pediatra, ha diretto il reparto di pediatria dell’ospedale Brotzu dal 2005 fino a maggio 2016.
Il diabete giovanile
prevenire un esordio difficile è possibile

Il Diabete insulino-dipendente (Type 1 Diabetes -T1D) è il risultato della cronica distruzione su base autoimmune delle beta-cellule pancreatiche con marcato e progressivo esaurimento della capacità a produrre insulina sino alla comparsa delle manifestazioni cliniche della malattia. L’esordio del T1D è frequentemente acuto ed è caratterizzato oltre che dall’iperglicemia (aumento del valore di glucosio nel sangue) con conseguente poliuria (frequente bisogno di urinare) e polidipsia (sensazione di sete intensa che porta al bisogno di una sproporzionata quantità di liquidi), anche da importanti alterazioni dell’ equilibrio idroelettrolitico e acido-base: la perdita attraverso le urine di grandi quantità di sali può provocare una riduzione graduale del pH ematico sino a livelli che possono diventare incompatibili con la vita. Questa condizione è nota come Cheto-acidosi diabetica (Diabetic ketoacidosis – DKA). L’incidenza del T1D nei bambini (età 0 -14 anni) varia fortemente nei diversi paesi europei, ma risulta essere per alcuni di essi un vero problema di sanità pubblica. Fra questi, la Sardegna condivide con la Finlandia il primato europeo (53–63/100.000 anno), ed è pertanto la regione in Italia nella quale si registrano il maggior numero di nuovi casi. In Sardegna non esiste solamente la forte frequenza, ma soprattutto il rapido incremento negli ultimi 40 anni: i valori di incidenza registrati nei primi anni ’70 erano simili a quelli riscontrati nelle altre regioni italiane ( 7 – 8/100.000) segno indiscutibile che questa repentina crescita è conseguenza dell’influsso oltre che di fattori genetici rimasti però immodificati da almeno 25-30 generazioni, anche di altre nuove condizioni capaci di interferire nella patogenesi della malattia, ma che purtroppo restano per il momento non identificate. Nei paesi con più bassa incidenza di T1D risulta generalmente più elevata la percentuale di DKA alla diagnosi rispetto ai paesi con maggior incidenza, quasi a significare che ove la malattia è più frequente vi sia una maggiore sensibilità verso di essa sia da parte della popolazione che della classe medica, il che in teoria si tradurrebbe nella maggiore capacità di arrivare più precocemente alla diagnosi e quindi prima dell’instaurarsi delle tipiche e gravi alterazioni che caratterizzano la DKA. È doveroso soffermarci sui sintomi che si possono osservare in un paziente che va incontro a DKA : aumento della diuresi, disidratazione, ipotensione, respiro di Kussmaul, (inspirazione profonda e rumorosa cui segue una breve apnea inspiratoria, quindi una espirazione breve e gemente), nausea, vomito, dolori addominali che possono simulare addome acuto, progressivo obnubilamento e perdita di coscienza, febbre solo in caso di infezione. La diagnosi di certezza può essere posta solo in ambito ospedaliero dal momento che bisogna dimostrare la presenza di parametri specifici, ma sicuramente il riconoscimento da parte dei familiari di alcuni dei sintomi è importante per non procrastinare la cura. Prevenire la DKA è possibile e significa ridurre le sue gravi possibili complicanze, fra le quali assume un rilievo di particolare importanza l’edema cerebrale, la cui presenza deve essere sospettata in caso di comparsa di forte cefalea, accentuazione del vomito e dell’obnubilamento del sensorio, brusca alterazione di alcuni parametri vitali. La ricorrenza dell’EC è relativamente rara, bisogna tuttavia rilevare che provoca morte in 1/5 dei casi ed è causa di sequele neurologiche permanenti nel 25-30 per cento dei pazienti. L’instaurarsi dell’edema cerebrale (EC) era considerato nel passato anche recente, l’effetto di una terapia reidratante mal condotta, ma negli ultimi anni vi sono state in letteratura numerose e convincenti segnalazioni che l’EC può essere rilevato ancor prima dell’inizio della terapia reidratante, la quale evidentemente almeno in questi casi non deve essere quindi considerata la causa determinante. E’ probabile che il ricorso a indagini di neurodiagnostica permetterebbe di rilevare stati di sub-edema cerebrale non identificabili sul piano clinico, ma probabilmente capaci di provocare quelle disfunzioni delle capacità mnemoniche riscontrate con maggior frequenza nei pazienti con T1D che presentino all’esordio segni clinici e laboratoristici di DKA. Qualunque possa essere il meccanismo in causa, ancora non ben conosciuto, si sa però che l’EC si osserva più frequentemente nei bambini più piccoli, anche se in relazione ai picchi d’incidenza per età del T1D, in termini assoluti il maggior numero di casi di EC sono descritti nella fascia di età compresa fra i 5 e i 14 anni (vedi figura 1). È abbastanza semplice intuire che la soluzione vincente per la prevenzione della DKA è rappresentata dalla possibilità di diminuire l’intervallo di tempo tra la comparsa dei primi sintomi e la diagnosi di T1D. Quindi di una concreta diagnosi precoce del T1D. A questo scopo sono stati proposti vari protocolli. Uno di essi prevede che sia definito alla nascita il rischio genetico per diabete T1D: i pazienti a rischio vengono sottoposti ad un attento follow-up in modo da evidenziare tempestivamente alterazioni della glicemia associate a incremento degli autoanticorpi anti-insula. Più semplice però appare la procedura che prevede di incrementare il livello di attenzione verso quelli che sono i primi segni clinici della malattia diabetica (poliuria – polidipsia – nicturia – dimagrimento) attraverso un’intensa campagna di sensibilizzazione indirizzata alla classe medica e alla popolazione. In funzione del limitato numero di abitanti della Regione Sardegna, si ritiene che tale procedura se condotta per un numero sufficiente di anni, possa produrre una notevole riduzione della frequenza di DKA nei pazienti sardi in età pediatrica con T1D all’esordio.

Dott. Alfonso Dessì
Specialista in Cardiologia e Medicina del Lavoro. Attualmente dirige uno Studio Cardiologico accreditato col SSN.
Ipertensione arteriosa e diabete

L’ipertensione arteriosa è presente in oltre un terzo della popolazione generale nei paesi occidentali. Il diabete noto è presente nel 3-4 per cento della popolazione generale. In una popolazione di ipertesi la prevalenza è più che doppia rispetto alla popolazione generale. Ci sono sostanziali differenze della prevalenza dell’ipertensione arteriosa nelle due forme di diabete. In quello di tipo 1, giovanile e normopeso, la prevalenza dell’ipertensione non è differente da quella della popolazione non diabetica. Nel diabete di tipo 2 l’ipertensione arteriosa ha una prevalenza più che doppia rispetto alla popolazione generale. La gravità dell’associazione ipertensione arteriosa-diabete è stata evidenziata in uno studio del 1998 (UKPDS) che aveva sottolineato l’importanza dei valori pressori nello sviluppo delle complicanze sia macrovascolari che microvascolari, evidenziando che un buon controllo pressorio riduceva sensibilmente le complicanze in un arco di tempo di circa 10 anni. Questo studio ha documentato in maniera incontrovertibile che la riduzione di 10 mmHg della pressione sistolica e di 5 mmHg di quella diastolica riduceva tra il 12 e il 19 per cento l’incidenza di infarto del miocardio, ictus, amputazioni, scompenso cardiaco, retinopatia diabetica, insuficienza renale e neuropatia diabetica. Da questi dati ne è derivato che, pur con qualche differenza tra europei e americani, si è sostanzialmente d’accordo nello stabilire che nel diabetico la pressione arteriosa andrebbe mantenuta sotto i 130/90 mmHg. Questo risultato può essere ottenuto con un approccio a 360° al paziente iperteso e diabetico. In questo approccio, se al Medico è richiesto un corretto utilizzo dei farmaci antipertensivi e una capacità di educazione sanitaria convincente e coinvolgente, al paziente è richiesta una collaborazione fattiva e convinta, che naturalmente non si ferma all’accurata assunzione dei farmaci prescritti ma comprende l’importantissima correzione dei cattivi stili di vita. Il Medico non insisterà mai abbastanza su questo punto, la cui osservanza non solo permette un miglior controllo di pressione e diabete ma consente anche di ridurre il carico farmacologico oltre a migliorare qualità e quantità della vita. In particolare va ridotto l’eccesso ponderale, perché per ogni 10 Kg di peso perduti i valori pressori si riducono da 5 a 20 mmHg. Una passeggiata di 30 minuti al giorno può ridurre la pressione sistolica tra i 4 e i 9 mmHg. Una dieta ricca di verdura e di frutta e povera di grassi può ridurre la pressione tra i 2 e gli 8 mmHg. Come si vede il trattamento del diabetico –iperteso coinvolge il paziente quanto il Medico. Senza una corretta terapia farmacologica non si ottengono i risultati sperati, senza un corretto stile di vita la terapia farmacologica è insufficiente. Soltanto con la collaborazione tra e Medico è possibile migliorare la qualità e la durata della vita dei nostri pazienti.

Dott. Sergio Solarino
Cagliaritano, 58 anni, Oculista, laurea in medicina e specializzazione a Cagliari, in medicina legale a Palermo. Direttore della clinica Centro Vista di Cagliari.
L’occhio e il diabete
Il Diabete è una patologia molto frequente in Sardegna, tanto che la nostra regione rappresenta uno dei luoghi in cui questa malattia è maggiormente rappresentata. Mentre nel resto d’Italia si registrano 6/7 nuovi casi per anno della forma tipo 1, da noi questo numero raggiun- ge i 50 casi. Anche per la forma di diabete tipo 2 si par- la di grandi numeri, circa 5.000 nuovi casi stimati ogni anno, casi che sono correlati soprattutto da errati stili di vita e alimentazione: poco movimento ed eccesso di carboidrati. Ciò significa, in ambito familiare, che circa il 20 per cento dei sardi ha un diabetico in famiglia.

La retinopatia diabetica
Ma l’allarme che questi numeri ci possono dare può e deve essere tradotto in un vantaggio. Il diabete, con la retinopatia diabetica, è una delle principali cause di diminuzione visiva fino anche alla cecità. Il nostro allarme deve tradursi in misure condivise di prevenzione e cura. Oggi la prevenzione oculistica della retinopatia diabetica è possibile con esami semplici e poco invasivi e soprattutto con tecnologie avanzate e computerizzate. La retinopatia diabetica si può verifica in entrambe le forme di diabete (tipo 1 e tipo 2) e viene distinta in due fasi di crescente gravità:
• Retinopatia non proliferante
• Retinopatia proliferante
Mentre per la prima, con lesioni minime, nella maggioranza dei casi, va solo praticata una osservazione, nella forma proliferante si assiste ad una accelerazione della malattia retinica con la tendenza a dare complicanze (come le emorragie vitreali) in tempi brevi e con grave rischio per la vista. A queste condizioni può associar- si, in qualsiasi fase, la maculopatia diabetica. Ricordiamoci che nei nostri occhi la porzione più nobile è rappresentata proprio dalla Macula, infatti questa parte della retina è quella che ha una visione ad alta definizione, è quella che ci permette di distinguere i dettagli, di leggere, scrivere, riconoscere un volto o guardare la televisione o un cellulare. Si capisce quindi facilmente che la maculopatia diabetica, cioè la patologia il diabete provoca su questa zona della retina, sia una malattia grave e handicappante . La progressione della retinopatia è direttamente correlata al controllo glicemico: tanto migliore questo è, tanto più improbabile sarà che l’occhio sviluppi la retinopatia e/o le sue complicanze.
Cosa fare: la prevenzione
La prima cosa è sempre la prevenzione, quindi bisognerà fare una visita oculistica periodicamente, comprensiva di un attento esame della retina ed in particolare della sede maculare. In presenza di alterazioni anche iniziali bisogna eseguire degli esami di approfondimento che permetteranno di capire quale stadio abbia raggiunto la patologia. Alcuni di questi esami sono semplici e non invasivi, come l’OCT della macula e del nervo ottico, un esame per cui si richiede solo la dilatazione della pupilla e che ci da dei dettagli finissimi delle zone analizzate. Soprattutto per la prevenzione dell’edema maculare essudativo diabetico. Altre volte, se sono presenti maggiori alterazioni, potrà essere necessario sottoporsi a valutazioni più invasive, come la fluoro angiografia retinica. Questo esame permette, tramite l’iniezione di un mezzo di contrasto, di valutare molti aspetti come l’edema, i microaneurismi, la presenza di essudati, ma soprattutto è importante per vedere se nella retina si siano sviluppate delle aree ischemiche, cioè in cui il sangue arriva con difficoltà e limitatamente. Sono queste aree che devono essere distrutte con il laser per evitare di far progredire la retinopatia verso le forme più gravi.
Il Laser robotizzato
Per tutte queste forme oggi abbiamo a disposizione la tecnologia robotizzata del Navilas, un laser fluoro-angiografo che permette dapprima di scattare foto ad altissima risoluzione della retina, con gli infrarossi, con il mezzo di contrasto, a colori, e poi di decidere sul suo schermo qual sarà il migliore trattamento per quel singolo caso. Il passo successivo sarà il trattamento robotizzato. Il laser eseguirà da solo, con una precisione assoluta, il piano operativo impostato, muovendo il suo raggio in accordo ad esso e neutralizzando gli eventuali movimenti involontari del paziente. Solo con questo laser possiamo avere la massima precisione in una zona come quella maculare che è così nobile e delicata. Aggiungo che talora si può rendere necessario anche il ricorso alle iniezioni intravitreali di farmaci AntiVegF, cioè di farmaci che bloccano, per un certo periodo di tempo, l’evoluzione verso la forma proliferante. Questo tempo in più vantaggiosamente impiegato per il trattamento laser che potrà rendere definitivo il blocco del peggioramento. Quindi: controllatevi , controllatevi , controllatevi !