Soffro da solo, ma mi curo in compagnia

Negli ultimi cento anni si è progressivamente costruito un modello di cura basato sul gruppo

[dropcap]P[/dropcap]er quanto attiene a quella che chiamiamo sofferenza psichica due sono le immagini tipicamente rappresentative della scena della cura. Una è quella che proviene originariamente dalla psicoanalisi di Freud e che si configura come una stanzacon un divano o una poltrona dove sta un paziente e seduto vicino un terapeuta, prevalentemente silenzioso, che ascolta.Il paziente che parla, racconta le sue sofferenze., i suoi disturbi, i suoi sintomi, ma anche i suoi sogni e le sue fantasie. Un luogo appartato, una situazione che crea una intimità dove il paziente possa esporre sé stesso in pienalibertà, dove possa mettere a nudo la propria esistenza con il suo curante, secondo il modello classico della messa a nudo del proprio corpo con il medico. L’altra immagine, storicamente più antica, è quella dell’ospedale, il vecchio manicomio, dove i malati cosiddetti gravi, folli, stavano insieme, talvolta addirittura ammassati, con una perdita totale della riservatezza e della intimità, e con una inevitabile perdita della personalizzazione sia del disturbo che della cura. In sintesi potremmo dire un luogo di follia di massa e di cura di massa. Ma al di là di questi due modelli classici, che potremmo definire quello dell’uno e quello della massa, negli ultimi cento anni si è progressivamente costruito un modello di cura basato sul gruppo, cioè un contesto dove più pazienti, in numero limitato, simultaneamente condividono l’incontro di cura con uno o più curanti. Nasce proprio nell’ambito della psicoterapia il modello clinico della terapia di gruppo che si sviluppa poi fino ai giorni nostri nell’ambito di molteplici cornici teoriche e pratiche operative.

In effetti è esperienza nota da sempre che la sofferenza, di qualsiasi natura, pur essendo una vicenda particolarmente peculiare e personale che tende a condurre le persone alla solitudine e addirittura all’isolamento, nello stesso tempo richiama e si giova della presenza di vicinanza, di condivisione e di aiuto degli altri.

Quel fenomeno spontaneo che chiamiamo di compassione, basato appunto sulla comprensione e condivisione del dolore dell’altro, è uno dei meccanismi fondamentali della coesistenza sociale degli esseri umani, antitetico all’aggressività, e quindi meccanismo di sostegno alla sopravivenza della specie quanto quello della generatività. Pertanto la gruppalità, che potremmo definire fattore vitale biologico, viene assunta come fattore basilare per un metodo di cura. Nella procedura organizzativa della cura di gruppo, il gruppo si configura sia come luogo che come strumento della cura stessa, attraverso fondamentalmente due modelli. Uno è quello del gruppo che viene costituito dai terapeuti, che mettono insieme più pazienti, i quali in sedute congiunte mettono in comune i propri dolori e i propri disturbi e che, con l’aiuto tecnico dei terapeuti, attraverso questa condivisione costruiscono una vera e propria potenzialità di cura che dal gruppo si diffonde sui singoli partecipanti. Può sembrare incredibile ma è assolutamente verificato come lo stare con gli altri, conoscere i disturbi e i dolori degli altri, attraverso meccanismi che chiamiamo di risonanza e di rispecchiamento, sia un potente strumento per conoscere meglio se stessi e trovare rimedio al proprio disturbo e al proprio dolore. Ma l’altro principale modello di terapia di gruppo è quello che è rivolto ad un gruppo che non è costruito ad arte dal terapeuta, ma esiste già nella realtà, costituito e strutturato. Il gruppo che sia costruito e organizzato secondo schemi e regole precise viene tipicamente definito come sistema e dei molteplici sistemi che organizzano l’esistenza umana quello principale, in quanto biologicamente fondato e socialmente riconosciuto, è la famiglia. Il sistema famiglia è storicamente il luogo principale della generazione e della crescita della creatura umana, il luogo dove a partire dalla sessualità procreativa della coppia si è organizzato primariamente lo sviluppo della vita del soggetto umano, come corpo e come mente. Essendo luogo cosi determinante l’identità di base del singolo è ovviamente il luogo del benessere ma anche del malessere, della gioia e del dolore, della salute e della malattia.

Identificando quindi questa connessione fondamentale tra il singolo e la propria famiglia un approccio metodologico di ricerca e di cura si è rivolto alla famiglia, per identificare quanto delle dinamiche peculiari del gruppo familiare possano essere la causa del disturbo del singolo membro e comunque per utilizzare la famiglia come una risorsa terapeutica per il singolo membro e per sé stessa nella sua totalità di sistema. Un approccio particolare della terapia familiare è quello che si definisce terapia di coppia, che identifica nella coppia il microgruppo nucleare della gruppalità familiare e potremmo anche dire della gruppalità sociale umana. I due modelli sinteticamente presentati si presentano nella realtà clinica con procedure operative molteplici e diversificate, sia come fondamenti teoretici che come stili procedurali, dalle terapie più incentrate sulla identificazione dei fattori gruppali inconsci a quelle più orientate alle prassi comportamentali e comunicative, da quelle che cercano di curare attraverso un’etica dell’esistenza a quelle che orientano ad una economia della salute. Complessivamente le terapie di gruppo stanno sempre più diffondendosi, e come approccio psicoterapeutico non solo nei disturbi tipicamente psichici, ma anche come cura della sofferenza nei pazienti con gravi malattie del corpo, dimostrando ancora una volta come sia fondamentale l’integrazione tra il corpo e la mente e tra l’uno e gli altri.

Dott. Alfredo Camera

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